Grano dalla storia antica, lo Jervicella è uno dei prodotti tipici della Regione Marche, protetto dall’Azienda Roso e dal suo “custode” Dino Roso (nella foto), nelle terre di Monte Giberto, in provincia di Fermo. Il seme è stato ereditato dai genitori, piantato per anni in un solo ettaro di terreno giusto per salvarne la specie e farne “del pane per casa”. Un grano prezioso, ricco di fibre e proteine e con poco glutine, che però nessun agricoltore sceglie più di piantare.
Le motivazioni sono molteplici e, in parte, si legano direttamente alle caratteristiche fisiche del grano. “Dopo la sua scoperta agli inizi del 900 nel territorio di Monte Giberto – racconta Dino Roso – il grano Jervicella si diffuse rapidamente nella zona del fermano e delle Marche ma anche in altre regioni. Non è andato in via di estinzione per la qualità ma per le sue caratteristiche, in particolare per la sua altezza”.
Proprio come molti grani antichi infatti, una spiga può raggiungere anche 1,80 metri di altezza e alle prime intemperie si alletta: “basta la pioggia o un vento più forte per farlo finire a terra”. Questo rappresenta un problema anche in fase di falciatura perché, “soprattutto quando veniva falciato a mano, costringeva i contadini a lavorare chini a terra per intere giornate”.
Tra le altre cause principali, la poca produzione. “Si semina tra la fine di ottobre e i primi di novembre. È molto delicato, non apprezza troppa acqua ma neanche la siccità e quando supera la stagione, la spiga ridotta permette di raccogliere poco grano rispetto alle varietà moderne”. Per portare l’esempio fatto da Dino, “se un ettaro di varietà moderna produce dai 50 ai 70 quintali di grano, un ettaro di Jervicella ne produce intorno ai 20”.
A questo si aggiunge infine la storia economica sociale del piccolo paese marchigiano e delle zone circostanti. Tra il 1960 e il 1970 infatti, le campagne si spopolarono ed i contadini andarono a lavorare nelle fabbriche del fermano. “I pochi contadini rimasti scelsero di cambiare rotta piantando grani moderni, più redditizi e facili da lavorare”.
Un ultimo deterrente – conclude – riguarda la destinazione finale del prodotto: “a chi lo vendi? Una risposta non affatto scontata se si considera che sono pochissimi coloro che scelgono di panificarlo”.
Filiera chiusa, dal campo alla tavola – Se lo Jervicella piantata dalla famiglia Roso riesce a vincere le difficoltà e diventare pane e pasta è grazie alla duplice qualità di agricoltore e panificatore del Signor Dino. Ne pianta dai 10 ai 12 ettari perché poi lo lavora nel suo panificio di famiglia, presente nel cuore del piccolo paese da oltre 90 anni. “Avendo poco glutine, lo Jervicella non è facile da lavorare – spiega. L’impasto lievita poco e è molto appiccicoso. “Al cliente piace ma è un pane difficile, che va capito”: più basso del tradizionale, friabile, che mantiene bene ma che in pochi giorni cambia nell’aspetto visivo e la tipica fetta di pane tradizionalmente intesa tende a rompersi”. La particolarità però, sta tutta nel suo sapore. Lo stesso elemento che, tra la fine dell’800 e l’inizio del 900, convinse il suo scopritore a tramandarne la specie.
Giovanni Jervicella scopre il suo grano – Al di là della cronaca regionale che racconta di una denominazione del prodotto che trova la sua origine nel termine dialettale “jerva”, ovvero “erbetta”, le cronache locali, con tanto di documentazione, parlano di un nome derivante, in realtà, dallo scopritore del prodotto. La storia è stata raccontata per anni a Dino da un’insegnante di Monte Giberto e poi da Giulia Jervicella, figlia di Giovanni Jervicella, che lo scoprì nel suo terreno quasi per caso, notando poche spighe svettare sopra le altre. Raccolse il poco grano sgranandole con le mani e decise di ripiantarlo su un vaso da fiori. Quando la quantità diventò tale da ricavarne un quantitativo trasformabile in farina lo panificò. “Giovanni sentì un sapore diverso, unico, e la stessa cosa è successa a,nche a me la prima volta che ne ho assaggiato” racconta.
La storia iniziata con Giovanni, raccontata dalle carte familiari che ne attestano la registrazione avvenuta negli anni 40, continua così oggi grazie a Dino. In quanto “custode” inserito nell’apposito registro di Amap (Azienda Marche Agricoltura e Pesca), garantisce la sopravvivenza del prodotto che non è solo un grano particolarmente alto e nutriente ma che è anche testimone di una storia regionale fatta di uomini e di scelte, di agricoltori che rinunciano o che resistono, salvando, come in questo caso, le piccole grandi ricchezze che rendono unica la nostra terra.