Considerato storicamente un cibo povero ma in realtà ricco di fibre e proteine, il lupino è parte della tradizione e dei ricordi di infanzia di molti. Più come uno snack che un legume in realtà, data l’abitudine diffusa di consumarne a piccole dosi, uno ad uno, negli orari di merende o aperitivi.
La sua origine è tanto antica che alcuni ne collocano la presenza addirittura nella Pangea, quando ancora i continenti erano uniti in un’unica placca. Gli archeologi lo ritrovarono nelle piramidi egizie e maya, era di uso comune presso i Greci e i Romani. Sono 4 le principali forme coltivate nei secoli nelle diverse parti del mondo, distinte per il colore dei fiori: il tarwi, coltivato solo in Sud America, ed i lupini azzurri, gialli e bianchi, questi tre tipici delle aree Mediterranee e presenti attualmente sia nel Centro che nel Nord Europa e in Australia.
Il lupino bianco ritrovato a Recanati
Quello riscoperto a Recanati nel 2011 da Gigliola Rosciani, attuale agricoltore custode, è un lupino bianco. “Ho notato questa pianta con fiori dalle sfumature violette sia nei dintorni del casolare dove abitavo che nelle case dei vicini – racconta. Ho iniziato a fare ricerche ed ho scoperto che lì, nella Valle del Pollenza, passava in passato un torrente che aveva reso il terreno limoso, ricco di argilla, sabbia e limo, quindi adatto alla coltivazione del lupino. Quella varietà in particolare, veniva coltivata dal precedente proprietario Gino Ortenzi che aveva ricevuto i semi dal proprietario del casolare dove io ero andata ad abitare”.
Dalla ricerca nasce la volontà di valorizzare il prodotto. Così, attraverso il Crea di Monsampolo si concretizza la possibilità, nel 2018, di fare delle ricerche sull’autenticità del lupino bianco che, nel 2019 viene riconosciuto come “pianta di interesse” e iscritto nel registro della Biodiversità della Regione Marche.
La coltivazione
Da Recanati, Gigliola si trasferisce nel 2017 a Treia dove oggi coltiva i semi di lupino bianco in 1000 metri quadri di terreno, all’interno della sua azienda “L’albero che cammina”.
“Si pianta tra settembre ed ottobre – spiega. È una pianta legnosa e piuttosto resistente che si difende dalle altre”. Sviluppa una radice profonda e resiste bene dalla siccità.
“A primavera inizia a svilupparsi, il terreno non deve ristagnare acqua”. La raccolta avviene verso la fine di luglio quando la pianta inizia ad essiccare.
Deamarizzazione necessaria
“A Recanati se ne era persa la coltivazione non tanto per la difficoltà di coltivarlo ma per l’esigenza di trattarlo dopo la raccolta” aggiunge. “Vi era intorno al lupino tutta una filiera familiare che è andata perduta e che era fondamentale per poterlo mangiare”.
Dopo la raccolta infatti, i semi vanno messi ad asciugare: “io li distengo sopra un telo, poi ad agosto li sistemo in delle cassette così da stoccarli in base alle necessità”. La lavorazione continua con tutto il processo di deamarizzazione. Necessario perché il lupino, a causa di una sostanza al suo interno chiamana lupinina, non è solo amaro ma anche tossico. “Quando li riprendo per prepararli e venderli – spiega Gigliola – devo reidratarli e scottarli per eliminare la parte nociva, responsabile anche del sapore sgradevole”. Solo dopo la scottatura si prosegue con la salamoia.
Si arriva così ai piccoli pacchettini di lupini che vediamo nelle fiere o in alcuni reparti dei supermercati.
Tra proprietà e criticità
Prodotto della tradizione soprattutto familiare dunque ma anche fonte di proprietà che meritano di essere valorizzate. “Contiene carboidrati, è ricco di proteine e lipidi, potenzia la salute cardiovascolare e intestinale ed è privo di glutine. Per il suo alto contenuto nutracetico è anche in grado di migliorare la fertilità dei terreni” aggiunge Gigliola condividendo però anche le mancanze, soprattutto culturali che il prodotto si porta dietro da tempo.
Uno dei limiti è sicuramente il terreno: “Servono terreni a Ph acido e questo riduce le zone in cui si riesce a coltivarlo”. Poi il processo sopra descritto, con la necessità di deamarizzarlo che ha portato nel tempo ad abbandonarne il trattamento: “anche perché è un procedimento che va fatto a mano e richiede del tempo”.
Per superare tale limite, sono stati condotti alcuni studi in Germania nel 1920 che hanno dato il via alla ricerca di un lupino “dolce”. Un lavoro di miglioramento genetico che ha ampliato la presenza del lupino in alcuni paesi come la Germania o l’Australia, dove viene utilizzato anche per produrre la farina o in sostituzione della soia.
In Italia, non vi è stata una vera rivalorizzazione del prodotto. “Manca una componente culturale gastronomica che lo renda protagonista in cucina – conclude Gigliola. Al massimo continua a rievocare memorie di infanzia ma nulla di più. Non ci sono ad esempio ricette per cucinarlo, non si fanno ricerche per nuovi metodi di deamarizzarlo” rimanendo così ancorato ad una tradizione antica che è al tempo stesso ricchezza e limite.
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