Se è vero che “le parole sono importanti”, quando si parla di agricoltura dovremmo iniziare a valutare quanto il termine “crisi” sia realmente appropriato per fotografare la situazione attuale. Soprattutto per quanto riguarda la regione Marche. Anni ed anni di articoli e saggi giornalistici, interrogazioni e mozioni politiche, dibattiti e congressi non hanno fatto altro che fotografare un settore in una difficoltà talmente seria da essere identificata come crisi, appunto. Ma i più recenti dati Istat (associati ad una puntuale consapevolezza di cosa realmente si intenda con tale parola) ci fotografano una situazione, se possibile, ancora peggiore.
Perché, se con il termine “crisi”, riferito alla contingenza economica, il vocabolario intende quella fase caratterizzata da un passaggio rapido dalla prosperità alla depressione, oggi non assistiamo più ad un balzo repentino verso il basso, ma ad un costante tracollo che sembra non volersi arrestare. Ed i dati più recenti sull’agricoltura marchigiana lo dimostrano.
Dati impietosi
Secondo l’Istat nel 2024 in tutta la regione si sono persi, solo nel settore della cerealicoltura, oltre 25.000 ettari di superficie utilizzata. Gli agricoltori regionali, infatti, hanno preferito ridimensionare le semine di quelle che per decenni sono state le colture principali di quest’area, partendo proprio dal grano duro. Gli oltre 100 mila ettari costanti fino al 2021 sono progressivamente scesi, fino ad arrivare ad 89 mila nel 2023 e a addirittura ad appena 73 mila nel 2024, con un calo di quasi il 30%. Situazione analoga anche per quanto riguarda frumento tenero ed orzo dove il primo è sceso da 16.000 ettari a 14.000 in un anno (tornando ai livelli del 2020), mentre il secondo dagli oltre 16.000 di qualche anno fa ai poco più di 10.000 del 2024.
Un processo che non trova giustificazione né nella normale rotazione colturale, che potrebbe causare un calo di alcune semine ma a favore di altre da rinnovo, né dalla decisione di orientarsi verso altre colture più redditizie.
Continuando nell’analisi dei dati, infatti, si osserva che il calo è praticamente generalizzato. A partire dal girasole (coltivazione dove le Marche sono ancora il primo posto in Italia), sceso dagli oltre 43 mila ettari fino al 2021 ai 35 mila dell’ultimo anno con un calo di quasi il 20%.Il favino è passato da 2.400 ettari nel 2023 a 430 nel 2024, cali analoghi anche per le colture minori ad eccezione del sorgo che ha visto un lieve aumento (2.000 ettari nel 2023 contro i 3.000 del 2024).
Decine di migliaia di ettari di seminativi persi e non recuperati nemmeno dalle foraggere. Se per anni molte aziende, a fronte di un calo delle marginalità, optavano per scelte meno dispendiose come l’erba medica oggi questa tendenza sembra rallentata. Circa 76.000 erano stati gli ettari destinati a questa leguminosa nel 2023 che hanno visto un calo a 73.000 nel 2024 (in parte compensato da altre foraggere come sulla o loietto).
Le reazioni

Numeri preoccupanti che secondo Confagricoltura Marche fotografano una agricoltura avviata verso un percorso inevitabile: “Non solo i prezzi spesso insoddisfacenti, ma anche i continui ostacoli, che norme ed enti di vario tipo ci impongono, hanno rappresentato un macigno per molti non più sopportabile” afferma il presidente di Confagricoltura Ancona Antonio Trionfi Honorati. Che aggiunge: “Se ad un sistema già di per sé non particolarmente redditizio sommiamo tutti i costi indiretti creati da un sistema Pac complicatissimo e da normative sempre più stringenti su ogni aspetto (oneri per la sicurezza, assicurazioni sui mezzi, bandi Psr complicatissimi da ottemperare, Registro dei trattamenti elettronico, etc..) il risultato non può che essere un graduale abbandono dei nostri campi. Almeno da parte delle realtà meno strutturate e di dimensioni minori”.
Posizioni, quelle del presidente Trionfi Honorati, avvalorate anche dai numeri. Se le aziende agricole attive nel 2014 nelle Marche, infatti, erano circa 28.000 oggi sono poco più di 21.000. Un calo che ha visto, in contemporanea, un costante accentramento se non di tutti i terreni quanto meno di quelli più appetibili. “La superficie media aziendale oggi è maggiore rispetto al passato. Ma se una parte dei terreni delle aziende che chiudono viene recuperato da altre che si ingrandiscono il saldo non è a pareggio” continua il presidente di Confagricoltura.
“Le zone interne – prosegue Trionfi Honorati – i terreni più scoscesi o quelli meno vocati corrono il rischio di essere definitivamente abbandonati. Il fatto che le azienda diventino sempre più grandi e strutturate non è un fatto negativo di per sé, una crescente professionalizzazione del settore è auspicabile. Al tempo stesso la concentrazione dei terreni a favore delle zone migliori determina un abbandono del territorio, partendo dalle aree interne. Se diminuiscono gli agricoltori viene meno anche il controllo di fossi, argini, siepi, strade bianche. La manutenzione di una vastissima area rurale verrà a mancare con ripercussioni ambientali inimmaginabili. Il difficile ricambio generazionale al quale assistiamo da anni, nonostante bandi regionali per i nuovi insediamenti giovani spesso oggettivamente mal scritti, è un dato di fatto”.
Sempre meno aziende agricole attive e sempre meno superficie utilizzata, più che un momento di crisi una vera e propria catastrofe che necessiterebbe di contromisure serie. Ma, mentre sui prezzi dei prodotti la globalizzazione ha già sancito l’impossibilità di trovare soluzioni efficaci (fatto salvo dazi o controlli più stringenti sull’import auspicati dagli agricoltori ma invisi ai cultori del mercato comune) l’auspicio è che quanto meno gli enti preposti inizino ad intervenire per rendere il mestiere dell’agricoltore più “appetibile”. Laddove, infatti, tale tendenza non si riuscisse a fermare i danni maggiori, prima ancora che chi lavora nel settore primario, li subirebbe l’intera collettività.