“Bevo dunque sono” di Roger Scruton – Raffaello Cortina Editore – è un libro che parla di vino in modo differente rispetto ai tanti manuali presenti in libreria. Spesso in quei testi sembra che la teoria sovrasti la pratica, cioè si legge soltanto senza mai bere.
Una precisazione prima di affrontare il libro di Scruton. I manuali sono testi gustosi per altri versi, dove non prevale il lato narrativo o comunque discorsivo, ma quello tecnico dei dati e delle formule. Si parte di solito dalle origini. Dove è apparsa la prima viticoltura, certamente nelle regioni che si estendono verso est – come leggo su “Vino, un dono di civiltà di Carlo G. Valli – forse in Mesopotamia, in Armenia, intorno al Mar Nero, oppure nel piccolo Caucaso. Si elencano tipi di vino e le loro caratteristiche. Malvasia, Verdicchio, Zibibbo Chianti, Albana, il repertorio classico. Si leggono giudizi. Suadenza e morbidezza. Una decisa carica aromatica. Superiore ricchezza estrattiva. Di dolcezza mentosa. Sono libri utili per chi vuole applicarsi nella materia, approfondire, senza però quasi mai – almeno a me fa questo effetto – sollecitare la degustazione vera e propria durante la lettura. Molto spesso si usano come gli elenchi telefonici di un tempo, quando erano cartacei. Cerchi il vino che ti interessa e vedi calici e prezzi. Parlo di testi di manualistica (non lo dico in senso riduttivo), che vanno dritti allo scopo, per dire finalmente “me ne intendo”, come recita il sottotitolo del libro – da cui ho tratto molte citazioni – di Luca Maroni, analista sensoriale, autore di un annuario di vini sempre voluminoso e completo.
Invece la mia intenzione è quella di proporre un testo che non è una guida al bere vino, ma al pensarlo, per usare le stesse parole di Roger Scruton nella prefazione, che è stato soprattutto un maestro del conservatorismo in politica. “Tutto ciò che in fin dei conti rappresenta il conservatorismo è la propensione a rimanere attaccati a quel che amiamo e conosciamo bene”, ha scritto in altri testi. Scruton, vivace polemista in Gran Bretagna scomparso nel 2020, si rifaceva al conservatorismo originario di Edmund Burke che, nato in opposizione all’illuminismo settecentesco e agli eccessi della rivoluzione francese, metteva al centro del nuovo ordine la famiglia, le comunità, la fede e la difesa delle identità.
Anche in campo culturale è stato un conservatore, prendendo le difese della tradizione classica, nelle sue espressioni artistiche, letterarie, musicali e mostrando come la cultura non sia soltanto una forma di sapere, ma una conoscenza di tipo ‘emozionale’. Lo stesso spirito anima questa guida filosofica al vino che ha per titolo una parafrasi della locuzione del filosofo del 1600 Renè Descartes “cogito ergo sum”, che tradotto dal latino significa penso dunque sono. Formula che esprime la certezza e l’evidenza immediata, intuitiva, con cui il soggetto pensante coglie la propria essenza. Quindi – per assonanza – Scruton capisce il senso della sua esistenza anche nel vino, direi soprattutto nel vino perché – uso un suo brano – la filosofia antica, il Cristianesino e l’arte occidentale vedono tutti il vino come un canale di comunicazione fra Dio e l’uomo, fra l’anima razionale e l’animale, fra il regno animale e quello vegetale. Anche Scruton – come nei manuali – si occupa delle origini della Vitis vinifera, coltivata almeno dal 6.000 a.C., procedendo poi per il simposio greco fino agli antichi romani. Il filosofo inglese passa quindi in rassegna vini provenienti da ogni latitudine, dalla Spagna alla California alla Nuova Zelanda e naturalmente all’Italia. “Il vino italiano – osserva Scruton – è strettamente connesso ai paesini, ai territori da cui proviene e a varietà particolari che rappresentano l’intensità di una vita “localizzata” e, quindi, ha un grande significato filosofico”. Secondo l’autore il vino accompagna benissimo il cibo, ma accompagna ancora meglio il pensiero, e pensando col vino s’impara non solo a sorseggiare riflettendo ma anche a riflettere sorseggiando. L’ultima parte è la più divertente. Scruton indica un vino da abbinare a un autore di filosofia. Per Nietzsche va bene un Beaujolais, per Hegel un Chianti Classico, per Spinoza un Borgogna. La breve nota su Martin Heidegger merita, per la sua ironia, di essere riportata per intero: “Quale pozione, come complemento al filosofo che ci ha detto che il niente nienta? Portare alle labbra un bicchiere vuoto e sentire che scende – nient, nient, nient – per tutta la lunghezza dell’esofago. È sicuramente un’esperienza che delizierà il vero conoscitore”.
Pensare il vino: il piacere del bere leggendo!
di Antonio Prenna