Seppur andare in “brodo di giuggiole” sia il simbolo dell’appagamento, non sono in tanti a conoscere davvero il sapore di questi frutti dalla buccia sottile che assomigliano ai datteri ed hanno un sapore dolce che ricorda quello delle piccole mele ma con una nota agrumata. Alcuni li mangiano croccanti con l’aiuto del coltello quando sono ancora verdognoli con riflessi rossi, altri invece li preferiscono molto più maturi, rugosi, raggrinziti, marroni quando lasciano i loro zuccheri sulle dita e si sciolgono sulla lingua.
IL BRODO DI GIUGGIOLE
Delle giuggiole se ne fanno diversi usi. Fresche nei strudel o nei biscotti al posto della mela, trasformate in confettura per accompagnare formaggi o le carni di selvaggina, in sciroppo per dolcificare le calde bevande e ubriacate nel “brodo di giuggiole”, specialità del Garda e del basso Veneto, in particolare dei Colli Euganei, dove la pianta non si è mai smesso di coltivare nei frutteti. Antica ricetta citata addirittura nella prima edizione del “Vocabolario degli Accademici della Crusca” quando l’espressione toscana, nel 1612, si riferiva alle “succiole” ossia alle castagne. Fu per meritocrazia che le giuggiole conquistarono il detto, per le loro proprietà medicinali essendo tra i rimedi erboristici dei monasteri considerato il decotto ideale contro la tosse, toccasana per altre malattie delle vie respiratorie ed ottimo digestivo.
Questo “brodo” è in realtà un liquore dal colore rosso ambrato ricavato da un’infusione idroalcolica di giuggiole mature a cui si aggiungono mele cotogne, scorze di limone, uva, melograni, altra frutta e dello zucchero che si filtra dopo aver fatto macerare per due mesi. Un “brodo-infuso” su cui Silvano Bucolini (nella foto) della Si.Gi., azienda agricola del maceratese specializzata nella riscoperta dei frutti dimenticati, si dedica da qualche lustro. «Confesso che ho iniziato a fare il brodo sfidato da amici venti anni fa nel 1999».
IL VINO DI GIUGGIOLE DELLE MARCHE
Racconta anni di prove, di tentativi, di litri e litri buttati via. Di una botte piena nascosta in cantina, diventata simbolo di fallimento. Poi, nel 2007, la svolta e nasce “Il Giuggiolone”, perché nel frattempo un produttore del Nord del “brodo” ne ha fatto un marchio. «Fu quasi un’idea fulminante. Un giorno, ho capito che non riuscivo a superare lo sciroppo alcolico perché non mi avvicinavo al frutto con il metodo corretto. Dovevo smettere di pensare solo in termini di macerazione, iniziare a sfruttare le mie conoscenze e la mia esperienza di olivicoltore e perfezionare il prodotto con un enologo». Il resto è segreto di fabbricazione ma il risultato è impeccabile: la Si.Gi. produce un vino di giuggiole che richiede 4 anni di lavorazione e non a caso lo propone nel formato (375 cl) riservato ai passiti. Al bicchiere, si presenta con un splendido colore giallo dorato, brillante con riflessi arancioni, non supera gli 11,5 gradi alcolici e sviluppa un profumo che nelle Marche, l’Ais, Associazione Italiana Sommelier, ha inserito nei suoi corsi di III livello.
Bella la storia delle giuggiole. Ha radici nei miti, nelle leggende e fa parte in tutto il mondo delle credenze popolari. Si ipotizza perfino che il “frutto del loto”, l’incantesimo che portò all’oblio gli uomini di Ulisse nell’Odissea di Omero, sarebbe un allusione ad una bevanda alcolica ricavata dalle giuggiole selvatiche. Bevanda inebriante di cui si parla nelle storie di Erodoto. Forse è per quello che per gli antichi romani l’albero divenne il simbolo del silenzio, con cui abbellivano i templi dedicati alla dea Prudenza. Pianta portafortuna nelle nostre campagne che si regalava alle spose. Usanza tra l’altro anche cinese. Da collegare alle sue radici che vanno in profondità e fa di questa pianta un albero che resiste ad importanti sbalzi di temperature, utile per segnare i confini dei terreni, travolta però dalla frutticoltura intensiva che preferì coltivazioni meno velocemente deperibili e più facili da smerciare.
UN’ALBERO BIO
Oggi, le giuggiole stanno ritornando in auge. Lo testimoniano investimenti importanti in California e in Florida, patrie della prugna secca, e nella vicina Emilia-Romagna. «E’ una pianta che richiede poco cure, rustica, rientra nelle poche colture che non necessitano di trattamenti fitosanitari e nemmeno di complicate potature – spiega Bucolini – ma necessita di molta pazienza, sia per arrivare a maturazione sia per raccogliere i frutti». Problemi che superano i produttori considerando che ha un prezzo, dai 3 ai 7 euro al chilo, non condizionato dai listini della grande distribuzione.
Fresche, sciroppate e in confettura, le giuggiole sono al centro delle produzioni di Settimio Carboni della casata Mestechi. Vantano un profumo intenso, tuttavia leggermente diverso. Come se gli alberi godessero degli effluvi dell’anice verde, coltivazione tipica di Castignano dove ha sede la sua azienda agricola.