L’Italia è orgogliosamente la patria del “Cynara cardunculus scolymus” in quanto produciamo un carciofo su quattro e, forti di una novantina di varietà e di quattro Igp, vantiamo una biodiversità impareggiabile.
Nel repertorio regionale dell’Amap – Agenzia Marche per l’Agricoltura e la Pesca, ad esempio, le Marche hanno registrato il carciofo ascolano, il precoce di Jesi, il violetto di Pesaro, quello di Urbania e quello di Montelupone, presidio Slow Food. Un carciofo particolare di colore viola con striature verdi che fu scoperto dai monaci benedettini dell’Abbazia di San Firmano già nel 1005 e si riconosce perché è più piccolo, non è peloso, ha meno spine e meno tannini. Caratteristiche che ne fanno uno dei rari carciofi, forse l’unico, che si può mangiare crudo. La rete di agricoltori Slow Food produce circa 700 mila carciofi all’anno, un milione con quelli dei Comuni vicini. La stagione 2025 promette bene fra una decina di giorni saranno disponibili.

Lorenzo Mosci a San Marcello, agricoltore custode del Precoce di Jesi che coltiva su 2,5 ettari, ha già, come il nome indica, iniziato a raccoglierlo. «È ricco di ferro, molto compatto e quindi deve essere spogliato fino ad arrivare al suo cuore tenero». Racconta che la pianta non vuole diserbanti ed insetticidi, esige un lavoro manuale e l’acqua che gli scende dal cielo. «Per crescere vuole che tutte le foglie siano bagnate». Gran parte della sua produzione va alla cooperativa Cipo di Jesi che lo distribuisce, anche se il suo core business è un accordo con Campari. C’è un po’ di Jesi nella cinarina dello storico e noto liquore. «Questo perché – spiega Mosci – ho notato che il consumo del carciofo fresco sta diminuendo».
Un sentiment confermato dagli dati: vanno di moda al Nord i surgelati o confezioni con carciofi già puliti mentre al Sud chi le consuma freschi sono per lo più gli over 55enni. «C’è una fetta di consumatore – conferma Mosci – che stiamo perdendo e andrebbero di nuovo “educati” al consumo magari tramite una campagna di comunicazione istituzionale o allora dobbiamo adeguare i centri di raccolta attrezzandoli di sistemi affinché si supera le difficoltà della cucina di oggi per prepararlo. Magari con confezioni dove sono già presentati puliti e che garantiscono una lunga durata».

Investire sulle nuove tecnologie per produrre un carciofo marchigiano di quarta gamma o addirittura di quinta ossia cotto e pronto da mangiare. E trasformare gli scarti da fresco – come in Puglia – in farina.
A Tolentino, con vista sul Castello della Rancia, Francesco Ricotta proprietario di Terra e Vita, produce e vende ortaggi a km zero dal 1992 che trasforma pure. Da diversi anni, coltiva il carciofo romanesco.
«Si distingue perché è più grande – spiega – privo di spine e di peluria interna, i suoi capolini sono circolari, piuttosto compatti e il cuore è estremamente tenero». Gli dedica ogni anno un bel ettaro dei cento della tenuta. Ogni pianta produce in media 25 a 30 carciofi e poi, a fine stagione, quelli piccolini ideali per le conserve sottolio. Anche lui condivide l’idea che sia necessario informare di nuovo il consumatore delle belle proprietà del carciofo per mantenere i consumi. Per il momento, sul mercato, grazie al clima favorevole nel Sud Italia, il carciofo romanesco ha i prezzi al rialzo ma il prodotto sardo, posizionato a 0,60 euro a capolino, sta dominando la piazza che non è molto entusiasmante. Molti buyer della Gdo stanno notando che la qualità è ottima, i prezzi corretti ma «la domanda rimane molto discreta, mancano i picchi di consumo del passato».
Cynara cardunculus scolymus (Carciofo)
Produzione mondiale: 1,450 milioni di tonnellate
Produzione Italia: 369 mila tonnellate (25% mondiale)
Produzione Marche (dati Istat 2024): 9.592 quintali
(27,2% Pu – 24,11% Mc – 22% An – 16,7% Ap – 10% Fm)
Ettari coltivati nelle Marche: 143
Iscritti nel repertorio della biodiversità Amap dal 2008:
Carciofo Ascolano, Carciofo precoce Jesino, Carciofo di Montelupone, Carciofo violetto di Pesaro, Carciofo di Urbania