Se con la battaglia contro la carne coltivata si sarebbe potuto pensare di aver toccato il fondo in quanto a masochismo e disonestà intellettuale, una nuova campagna si è profilata all’orizzonte: quella contro il vino dealcolato. Un prodotto dal nome insolito, che potrà far storcere il naso ai più tradizionalisti, ma che in realtà altro non è che vino al quale viene sottratta la componente alcolica. Nulla di chimico o dannoso per l’organismo umano (come qualcuno vorrebbe far credere), ma sempre più richiesto dal mercato internazionale e che, piaccia o meno, è destinato a diffondersi anche in Italia.
Proprio per tale motivo, nel 2021 è stato adottato un apposito regolamento europeo per stabilirne criteri di produzione e commercializzazione, ma che in Italia non ha ancora visto una concreta applicazione. Per quale motivo? Le solite timidezze che il Ministero dell’Agricoltura solleva ogni qual volta si provi a modernizzare il settore introducendo qualcosa di nuovo (timidezze “curiosamente” suggerite sotto dettatura da alcune organizzazioni che sembrerebbero aver fatto dell’oscurantismo e della lotta contro ogni forma di innovazione il proprio mantra).
Una questione complessa della quale abbiamo parlato con Federico Castellucci, presidente di Confagricoltura Marche e della Federazione nazionale vitivinicola della stessa associazione, già direttore dell’Organizzazione Internazionale della Vigna e del Vino (Organismo intergovernativo con sede a Digione punto di riferimento scientifico e tecnico del settore dal 1924 ) nonché produttore di Verdicchio. Un esponente autorevole che di vino e cultura enologica certamente se ne intende.
Presidente Castellucci, quale è lo stato della questione vino dealcolato?
“Da diversi anni è ormai in vigore il ben noto regolamento comunitario (che dovrebbe applicarsi direttamente negli Stati membri) che sancisce in modo dettagliato i criteri per la produzione e commercializzazione di tali vini. Purtroppo, nel nostro Paese, le solite incertezze e lungaggini nell’emanazione di una normativa di produzione e, non ultimo, di gestione del liquido residuo (alcol), non permettono ancora ai produttori italiani di sviluppare, in casa nostra, tali produzioni. Ricordiamoci che si tratta a tutti gli effetti di vini (così infatti si possono chiamare ai sensi della sopra citata normativa) che già stanno circolando in mezzo mondo grazie al lavoro dei colleghi d’oltralpe”.
Ci troviamo, quindi, nella paradossale situazione per cui queste produzioni possono circolare liberamente ed essere venduti in tutta l’Unione Europea, Italia compresa, ma i nostri viticoltori non possono avvantaggiarsene?
“Esattamente, ed il successo commerciale che tali vini stanno riscuotendo è molto interessante. Non saranno certo la panacea a tutte le difficoltà che attraversa al momento il comparto vinicolo, ma sono comunque un nuovo canale di sbocco alle nostre produzioni, con possibili, positivi sviluppi futuri. Il settore birraio, del resto, con le birre analcoliche ha avuto sicuramente un bello sviluppo di vendite e di produzione andando a contattare e convincere una platea di consumatori più ampia di quella tradizionale”.
Potrebbe essere anche un modo per intercettare anche le nuove generazioni?
“La c.d. generazione Z è molto meno interessata alle bevande alcoliche, dobbiamo prenderne atto e cercare di venire loro incontro. Non dimentichiamo poi quella parte di consumatori, italiani ed esteri, che per ragioni alimentari, religiose o per altri motivi non vogliono assumere bevande contenenti alcol. Questo può essere un modo per aprirsi anche a loro senza creare nessuna concorrenza sleale, ma studiando un prodotto complementare”.
I detrattori, fra le varie accuse, sostengono anche che questo sarebbe un favore solo alle aziende vitivinicole più grandi e strutturate penalizzando le realtà tradizionali?
“Si tratta di prodotti che, per ragioni di competenze tecniche e di impianti, richiedono investimenti certamente maggiori, ma non vedo quale sia il problema. Dobbiamo incentivare chiunque voglia fare impresa partendo proprio da quelle realtà, private e cooperative, che sono l’orgoglio del nostro paese nel mondo. Questo non crea poi nessuno svantaggio ai piccoli produttori che potranno continuare a fare, anche meglio, il proprio lavoro e soddisfare quei consumatori che vogliono il prodotto tradizionale. Si tratta di sviluppare un mercato ulteriore, non alternativo al vino che conosciamo ed apprezziamo. Non esiste, poi, alcun pericolo per le nostre DOC e DOCG e chi paventa tale rischio non è sicuramente bene informato. I disciplinari delle nostre DOC prevedono infatti chiaramente un contenuto di alcol da fermentazione ben definito e quindi continueranno ad esistere e ad avere successo presso i consumatori”.
Una impostazione che vuole essere sostanzialmente a tutela sia delle imprese che dei consumatori dunque?
“Dobbiamo mettere rapidamente gli imprenditori vinicoli italiani, che lo desiderino, in condizione di produrre ed esportare anche questa categoria di vini prima che il mercato cominci a strutturarsi in nostra assenza e gli scaffali a divenire sempre più affollati dai nostri concorrenti esteri. Il mondo va avanti indipendente da noi, non dobbiamo rimanere indietro come già fatto su molte altre tecniche di produzione. Sono convinto e fiducioso che, con il nostro saper fare e la nostra tecnologia enologica, gli imprenditori vinicoli italiani (e marchigiani in particolare) sapranno diventare i migliori anche in questo settore senza far correre alcun rischio al nostro Verdicchio e alle tante altre eccellenze che i nostri territori esprimono”.