Dove non so – “La danza della lepre” di Giuseppina Pieragostini

Attualità
I libri della terra
di Antonio Prenna

Provate a cercare Noèlle – nel dialetto dell’Appennino piceno significa nessun posto – su Google Maps. Mi raccomando con la e grave, bella aperta, anche se Google non si preoccupa degli accenti. Troverete riferimenti al francese noelle (senza accenti) cioè Natale, magari alle location del film Disney con questo titolo del 2019, naturalmente natalizio. Fate la stessa ricerca invece con il corrispondente inglese di Noèlle, cioè nowhere. Accanto a tanti locali e ristoranti con questo termine evocativo (è magnifico darsi appuntamento in nessun posto, no?), scoprirete che almeno una comunità ha questo nome che indica un luogo che non esiste e lo trovate in Oklahoma. È la bizzarria della toponomastica degli americani che hanno cittadine che si chiamano Tarzan nel Texas, Popcorn in Indiana o Ironia nel New Jersey (giusto per chiudere il cerchio su questa premessa). Perché mi soffermo tanto sul nome del luogo (o non-luogo, chiamatelo come vi piace di più) dove è ambientato il bel libro di Giuseppina Pieragostini “La danza della lepre”?
Una storia come questa, dove ci si chiede quale prezzo deve pagare l’anima alla modernità (come recita il richiamo in copertina), non può avere una localizzazione precisa. È come dire che è avvenuta un po’ dappertutto nelle nostre campagne marchigiane e non solo in quelle. D’altra parte è curioso notare che le foto di copertina di questa storia dell’ultima bambina contadina provengono non dalle Marche, ma dall’Archivio fotografico del Comune di Eboli (proprio quello dove il Cristo di Carlo Levi si era fermato). Quindi la storia di Noèlle vuole essere universale per quanto riguarda le sorti del mondo rurale.
Nel 1951 nel settore primario in Italia lavorava il 62% della popolazione attiva, mentre dieci anni dopo il dato scendeva al 45%, la politica e i finanziamenti erano stati rivolti prevalentemente all’industria, diventando il settore trainante del paese e decretando la fine di un mondo che ha pagato in questo modo sicuramente un prezzo troppo alto alla modernità. Le campagne si sono spopolate e il modo di lavorare la terra non è stato più lo stesso, fatto quasi di sole braccia e sudore e quel mondo ha perso le sue caratteristiche culturali. Una lunga premessa per un libro dalle molte sfaccettature, dove si intrecciano antropologia, ricerca linguistica, introspezione psicologica, senza tralasciare la ricerca della soluzione di un mistero (la storia diventa quasi un thriller) nella forma dell’epistolario ritrovato. Trovare questi fogli mescolati e scompagnati è stato un miracolo, si legge nell’esergo. Chi scrive queste lettere rivolte a Beatrice Blackwood – la prima donna inglese laureata in antropologia – è una studiosa di folklore (anche lei inglese, ma con padre italiano ): Isabella Stazzani. Nome d’invenzione dietro cui si nasconde una vera studiosa e pittrice inglese – Estella Canziani – che ha percorso, raccontato e documentato con numerose pitture, negli anni ’20 del Novecento, il territorio degli Abruzzi. Isabella arriva in questo non-luogo su invito di un paesano emigrato a Londra che vuol rivedere i suoi luoghi di origine. La donna si lascia convincere anche per rifare il viaggio nell’Italia centrale compiuto anni prima con il padre, che era stato condensato in un libro.
“Una vera e propria esplorazione di terre allora sconosciute, caratterizzata dalla scoperta emozionante di un mondo selvatico, di genti forastiche, di costumi magnifici e dalla totale estraneità di tutto ciò a ogni sentore di modernità”, come si legge nell’incipit. Anche questo racconto diventa un altro tipo di esplorazione, ma tutto giocato all’interno di una minuscola comunità dimenticata – l’autrice si è ispirata alla zona attorno a Montemonaco, ai piedi del monte Sibilla – la cui vita ruota attorno a quello che era un romitorio chiamato con diversi nomi, la Pinduretta, la Bambinella, l’Asilo, dove risiedevano delle bambine sante, le Friche (in dialetto fricu significa bambino) al centro di un culto popolare che rasentava l’eresia.
Con la storia del XIII sec. di Meco del Sacco ci sono echi da “Il nome della rosa”. Il libro è pieno di personaggi singolari: il medico condotto, il canonico che parla usando un latino arcaico, tre vecchie zitelle che sembrano le Parche della mitologia classica e soprattutto Pietruccia, – l’ultima bambina contadina del titolo – che accompagna Isabella a perlustrare la zona per risolvere i misteri di questo luogo alla fine del mondo. C’è un mistero su tutti che ruota attorno alla trama: come e perché sono morte le Santucce, ultime ospiti del piccolo romitorio femminile che era stato il cuore del villaggio? Lo stile di scrittura si trasforma a questo punto e la forma epistolare passa in secondo piano, diventando indagine e resoconto. D’altra parte siamo nella zona della MontagnaMaga, dove la Sibilla dispensava i suoi oracoli. Difficile condensare in poche righe la ricchezza dei riferimenti storici e delle sottotrame dove convergono credenze popolari e usanze linguistiche destinate a scomparire con la modernità.
Raccontare poi alcuni particolari significherebbe fare spoiler, come si dice in questi nostri tempi modernissimi, e quindi rovinare la sorpresa di una storia intrisa di realismo magico. È tutto vero? È tutta finzione? Su tutti vince – come argomento l’ho lasciato per ultimo appositamente – l’uso del dialetto (la parlata del fermano-maceratese), già indagato dall’autrice con molta attenzione in un precedente libro intitolato “Il vanto e la gallanza. Il paese dei contadini raccontato nella lingua d’origine”.
“Questo lessico – si legge nei primi capitoli de “La danza della lepre” – si manifesta come un labirinto che riproduce se stesso, al modo di certe filastrocche popolari, degli stessi rosari della liturgia cattolica, di certi scioglilingua.” Ultimissima gustosa annotazione: il soprannome di famiglia di Giuseppina Pieragostini è sgattó (con l’accento acuto) che in dialetto significa proprio lepre, come il nome dell’editore “La Lepre edizioni”. Un altro cerchio – quello fondamentale – che si chiude.

Foto: Archivio Giulio Chiurchioni di Comunanza

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