L’andamento delle quotazioni dei cereali – è cosa nota – rientra fra le questioni di maggiore interesse per ogni agricoltore marchigiano. Se questa regione, infatti, si colloca stabilente fra le prime a livello nazionale per la produzione di grano duro (in media poco meno di 100.00 ettari destinati a tale coltura) non ha di certo la stessa influenza nella determinazione dei prezzi di ciò che coltiva. Una circostanza dovuta in parte ad alcuni mali atavici che affliggono il settore come la mancanza di infrastrutture efficienti, l’eccessiva frammentazione nello stoccaggio o l’illusoria convinzione degli agricoltori di poter vendere il grano come se giocassero in borsa, ma non solo.
Quella dei cereali, del resto, è una partita che coinvolge giocatori posti ben più in alto e nella quale, purtroppo, il ruolo dei territori è sempre più marginale. Stesso discorso per quanto riguarda colza, girasole ed altre produzioni locali.
Da una recente indagine commissionata dal Parlamento Europeo, infatti, è emerso che circa il 70% del commercio mondiale di cereali, ed il 60% delle compravendite di proteoleaginose, è controllato da quattro gruppi: Archer Daniels Midland (ADM), Bunge, Cargill e Louis Dreyfus Company (LDC). Cifre impressionanti che si traducono in oltre 650 milioni di tonnellate di materie prime trattate da un pugno di multinazionali.
Una concentrazione gestita da pochi, grandissimi, operatori che stabiliscono i prezzi di acquisto delle commodities dagli agricoltori e quelli di vendita sul mercato con tutto ciò che ne consegue in termini di speculazione. Una situazione anomala molto simile ad un oligopolio in cui, è intuibile, la speculazione trova terreno fertile.
Non è un caso come dal medesimo studio (realizzato da Ernst & Young) sia emersa una crescente partecipazione nei mercati agricoli di investitori finanziari, soggetti totalmente estranei al settore primario. Oltre il 70% delle posizioni aperte nel mercato Usa del grano è detenuto, ad esempio, da istituzioni finanziarie. Parimenti, a seguito alla guerra russo-ucraina e delle incertezze geopolitiche da essa derivanti, sempre più hedge funds (fondi speculativi) si sono interessati agli scambi di girasole e grano tenero ottenendo profitti nell’ordine di 2 miliardi di dollari. Cifre immense che segnano un solco invalicabile fra chi produce le materie prime, con remunerazioni modestissime, e chi ne gestisce il commercio mondiale guadagnandoci in maniera abnorme.
Questo è il risultato schizofrenico di una globalizzazione senza regole in cui l’illusione di un mercato sempre più comune ha avvantaggiato, da un lato, i paesi produttori a basso costo e, dall’altro, la grande finanza speculativa. Un fatto che ha creato una distorsione del mercato anche per prodotti tipici di alcuni areali proprio come il grano duro, sul quale ancora si basa anche l’economia agricola delle Marche. Infatti di fronte ad un fabbisogno nazionale di 6,5 milioni di tonnellate, per lo più destinati all’industria pastaria, ed una produzione media di circa 4 milioni logica vorrebbe che il prezzo si mantenga quantomeno sostenuto. La generale legge della domanda e dell’offerta questo afferma: Scarsità di prodotto = Aumento dei prezzi. Principio non più valido nel momento in cui, però, l’abbattimento delle barriere doganali consente di importare grano dall’altra parte del mondo a prezzi concorrenziali e la normativa nazionale, invece, rende sempre più oneroso e complesso svolgere l’attività agricola. Risultato, cereali acquistati a poco più di 30 euro a fronte di costi di produzione sempre maggiori.
Ed in un quadro come quello sopra descritto lo sviluppo sempre più aggressivo di alcune economie emergenti, unito ad il miglioramento delle abitudini alimentari di alcune popolazioni un tempo considerate terzo mondo, non potrà che aggravare la situazione. Non è un caso l’emergere di nuovi player come la cinese Cofco International (11 mila dipendenti in 36 Paesi) che nel 2022 aveva commercializzato 127 milioni di tonnellate di cereali, semi oleosi e legumi proteici. Un nuovo attore sostenuto da investimenti statali che porta anche ad interrogarsi su quanto questo tipo di concorrenza con aziende totalmente private sia lecita.
Di fronte a prospettive del genere non ci si può stupire se alcune politiche protezionistiche e di dazi non assumono più il ruolo di una minaccia ma di una prospettiva, in fondo, non così disdegnabile. Almeno per chi ancora vive di agricoltura.