“Le Marche, l’unica regione senza un Piano olivicolo”

Massimo Serena: "Scontiamo criticità e ritardi clamorosi. Tante sfide da cogliere, ma manca la regia"
Attualità
di Francesco Cherubini

“Siamo rimasti gli unici a non aver predisposto un Piano olivicolo regionale. Tra tutte le regioni d’Italia dove l’olivicoltura ha un proprio ruolo, le Marche si distinguono per ritardi clamorosi sotto tutti i punti di vista, a testimonianza di una politica agricola regionale che, sotto questo aspetto, ha miseramente fallito”.

Massimo Serena

Massimo Serena, esponente di Confagricoltura Ascoli Piceno e punto di riferimento dell’associazione nazionale in tema olivicolo-oleario, non risparmia critiche all’assessorato regionale all’agricoltura.

E rilancia: “Siamo alla vigilia di un nuovo Piano olivicolo nazionale che dovrà indicare  innovative traiettorie di sviluppo per meglio qualificare il settore, introdurre sistemi che favoriscano interventi per meccanizzare i processi produttivi, aumentare la produzione e la qualità, intercettare opportunità. E mentre tutte le altre regioni si sono attrezzate da tempo mettendo in campo non solo risorse, ma anche obiettivi strategici con cui puntare anche a fondi nazionali, le Marche cosa fanno? Assolutamente nulla!”

Cosa servirebbe all’olivicoltura regionale? Tanto, tantissimo. Partiamo dal fatto che le Marche sono una regione dove insistono nemmeno 10 mila ettari di oliveti, rispetto al milione presente in Italia e dunque è un territorio che incide, sotto il profilo della produzione, per appena l’1%. I frantoi sono circa 140, rispetto ai 4500 presenti nella penisola, molti dei quali costretti ad acquistare olive fuori regione per raggiungere volumi adeguati. Gran parte dei circa 15 mila olivicoltori stimati è composta da hobbisti: parliamo di persone che, svolgendo un’altra professione, portano avanti per passione, tradizione di famiglia e tutela ambientale gli oliveti ereditati dai genitori o dai nonni ed il cui olio è destinato all’autoconsumo. Dunque una fetta importante che esce dal normale circuito commerciale. Sono al tempo stesso coloro che, però, sono più predisposti all’abbandono degli oliveti, fattore che coinvolge tutta Italia, perché magari si trasferiscono altrove, non hanno più tempo né voglia di dedicarsi all’olivicoltura, specie se in terreni scoscesi o impervi.

Vi sono tre certificazioni di origine: una Dop piccolissima, quella dell’olio di Cartoceto, che neanche è censita a livello nazionale; una Dop dedicata alle olive da mensa, quella Ascolana del Piceno, circoscritta tra le province di Ascoli, Fermo e Teramo, ed una Igp regionale di olio extravergine di oliva che fa tremenda fatica a fare numeri.

L’oleoturismo è ancora un tabù, probabilmente perché le aziende olivicole, prim’ancora di questa opportunità, vanno sostenute per strutturarsi meglio. Non è un caso che il bando che finanziava con un milione le attività per l’oleoturismo non abbia registrato alcuna domanda entro la scadenza di metà febbraio, obbligando la Regione ad una ulteriore proroga di altri due mesi.

“Un quadro statico, stanco e senza energie per una ripresa” insiste Serena che prova ad indicare gli obiettivi che dovrebbe avere un Piano olivicolo regionale: “Non serve inventarsi cose straordinarie, baserebbe vedere cosa fanno le regioni accanto e muoversi di conseguenza. Partiamo dagli oliveti: occorre certamente incentivare il recupero di quelli abbandonati e, laddove non sia possibile, favorirne la ristrutturazione con nuovi impianti, siano essi tradizionali, intensivi o superintensivi a seconda delle caratteristiche dei territori. Abbiamo un ricco patrimonio varietale su cui spicca l’Ascolana Tenera che è una delle più importanti cultivar a duplice attitudine. Va investito su tale varietà, anche ampliando il territorio della Dop, coinvolgendo le altre provincie marchigiane, superando inutili campanilismi. Va capito cosa non riesce a far decollare l’Igp, al di là della produzione ridotta, e studiare come sostenerla. Vanno meglio utilizzati i fondi per gli investimenti sulla meccanizzazione, che consentono sostegni fino al 60%, riducendo al tempo stesso la burocrazia. Occorre investire sulla formazione dei giovani per la gestione degli oliveti, ma anche per la trasformazione. Abbiamo due grandi realtà come la Politecnica delle Marche e l’Amap che in fatto di olivicoltura sono all’avanguardia a livello nazionale e che possono fornire ottime indicazioni alla Regione su come muoversi. Vanno coinvolte”. 

Insomma – conclude Serena – abbiamo tante cose, ne manca una: la regia. Quella regia che anche in questa legislatura regionale non si è vista e che dubito sia in grado, nei pochi mesi rimasti, possa essere capace di recuperare il tempo perduto”.

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